L’Italia non è la DDR

Rubrica: Editoriale

C’era una volta la Stasi, l’istituzione che per quasi quarant’anni ha sorvegliato gli abitanti di tutta la Germania Est, registrando telefonate private e spingendo i cittadini alla delazione: al minimo sospetto si veniva denunciati alle autorità e da quel momento tutto veniva registrato. Ogni conversazione, ogni battito di ciglia, ogni incertezza. In quegli anni la diffidenza era all’ordine del giorno, tutti vedevano nel vicino di casa una probabile spia al servizio dell’Occidente, e così nel giro di poco tempo, segnalazione dopo segnalazione, quasi tutti gli abitanti della DDR si ritrovarono schedati dal Ministero per la Sicurezza di Stato. Ogni tanto in Germania si rispolverano certe vecchie abitudini (per esempio proponendo l’uso di “virus ministeriali” per sorvegliare l’attività sul web dei cittadini) ma per fortuna i tempi cambiano, la guerra fredda è finita da un pezzo e i metodi della Repubblica Democratica Tedesca sono soltanto un lontano ricordo.

C’è un film che racconta cosa accadeva nella Germania Est in quegli anni, Le vite degli altri, vincitore del Premio Oscar come miglior film straniero nel 2007. Oggi quel film è sulla bocca di chi difende la legge sulle intercettazioni voluta dall’attuale maggioranza. Ma il diritto alla privacy è una scusa, l’Italia di oggi non è la Germania di ieri e il governo dovrebbe avere ben altre priorità. Difendere la classe politica da intercettazioni selvagge che turbano l’ordine pubblico e, ancor di più, la vita dei sorvegliati, la cui reputazione viene così danneggiata, non rappresenta un’impellenza.

Giornalisti ed editori – nessuno escluso – sono da sempre responsabili per quello che scrivono e pubblicano. Ogni volta che qualcuno si è sentito offeso dalle parole di questo o di quel giornalista ha potuto ricorrere alla giustizia per lavare l’onta subita. Già oggi si arrivano a chiedere risarcimenti fuori da ogni logica, risarcimenti che non tengono conto dell’effettiva disponibilità economica di chi, qualora venisse reputato colpevole, dovrebbe mettere mano al portafoglio. Questi comportamenti uccidono l’informazione e obbligano al silenzio già molti giornalisti. Se non fosse certo di essere nel giusto, nessun editore – immaginate poi quello squattrinato – pubblicherebbe un’inchiesta-bomba sapendo di incorrere in dispendiose battaglie legali con richieste per danni che non stanno né in cielo né in terra. Dunque che senso ha spingere per pene ancora più severe? Non è così che si otterrà un giornalismo più responsabile, fermo restando poi che, per dirsi moderno, un Paese non può rinunciare né al diritto d’informazione né al diritto di critica.

E’ vero che molti Paesi prevedono già norme come quelle che verrebbero introdotte in Italia con questo decreto legge ma – ce lo ricorda la stampa estera – l’Italia non è un Paese come tutti gli altri. E’ un Paese dove la corruzione è all’ordine del giorno e dove la giustizia ha i suoi tempi. In Italia aspettare la fine delle indagini preliminari per dare notizia di uno scandalo significa tenere all’oscuro una cittadinanza già poco informata su questioni di rilevanza nazionale.

Per tutte queste ragioni anche io mi schiero contro una legge che mira soltanto all’inasprimento delle pene e che finisce con l’obbligare al silenzio chi si occupa di informazione, una legge scellerata per cui si è chiesto persino il carcere ai cronisti, una legge con cui non si intende tutelare la privacy ma ritardare la circolazione di notizie scomode.
L’Italia non è la DDR, semmai ricorda sempre di più la Russia di Putin…

Manfredi Pomar

(giugno 2010)