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EDITORIALE

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periodico di informazione universitaria

Quel pasticciaccio brutto...

Vi raccontiamo una storia. E' una storia singolare perché ha un inizio, ma non ha ancora una fine, e forse non avrà nemmeno, come tutte le storie che si rispettano, un lieto fine.

A noi l'ha narrata uno dei protagonisti, documenti alla mano. Perché questa storia non è una favola e perciò ha bisogno di atti per diventare credibile. (Ed è davvero difficile crederci e anche, tutto sommato, un po' fastidioso).

Il 15 ottobre del 1953, e cioè quasi cinquant'anni fa, su proposta dell'illuminato rettore dell'Ateneo palermitano Lauro Chiazzese, l'Università di Palermo dà vita a una Fondazione - l'Istituto Superiore di Giornalismo - che con decreto della Regione siciliana il 31 gennaio dell'anno successivo assurge a Ente Morale.

Finalità statutaria dell'Istituto è quella di "fornire una preparazione tecnico-professionale a coloro che desiderano dedicarsi all'attività pubblicistica nel campo del giornalismo, della radio, della televisione, del cinema, della pubblicità e della propaganda" e quindi organizzare corsi attinenti al settore e curare pubblicazioni di periodici. L'Istituto ha un presidente - il rettore dell'Università di Palermo - un Consiglio di Amministrazione del quale fanno parte anche due presidi di Facoltà dell'Ateneo (quello di Giurisprudenza e quello di Lettere e Filosofia), un direttore didattico e uno Statuto al quale attenersi rigorosamente.

La sua sede, naturalmente, viene individuata in locali dell'Ateneo e precisamente quelli di vicolo Sant'Uffizio, a piazza Marina, fianco a fianco con lo Steri.

Per un po' di tempo tutto va bene, il rettore convoca regolarmente il C.d.A., le lezioni si svolgono con docenti di prestigio anche internazionale e gli studenti che frequentano l'Istituto studiano per imparare il mestiere e dopo il diploma utilizzano la loro preparazione per inseririsi nel settore (e molti ci sono riusciti).

Poi le cose cambiano. L'Ateneo progetta di sfornare giornalisti da un corso di laurea della Facoltà di Scienze della Formazione (il vecchio Magistero rivisitato) e l'Istituto rischia di diventare una presenza scomoda, senz'altro imbarazzante, per l'Ateneo, non foss'altro che per dover giustificare agli occhi dei più la scelta di imbarcarsi in una antitetica avventura nuova invece di lavorare su quella già esistente.

Nel frattempo l'Istituto viene invitato a lasciare la sede per motivi di ristrutturazione dell'edificio e destinato ad altri locali, sempre dell'Ateneo (almeno in parte).

6 aprile 1996. La Regione intraprende azioni per il riconoscimento dell'Istituto quale corso di studi di scuola superiore a livello universitario e vara una legge a suo favore, ma la legge rimane inapplicata.

Intanto, su pressioni accademico-politiche che non stiamo a precisare (e per le quali vi rimandiamo alla lettura dell'intervista sull'argomento pubblicata in apertura di questo numero), l'Istituto a poco a poco viene disconosciuto dall'Università e il rettore - questa è cronaca degli ultimi giorni - decide di dimettersi da presidente e programma di far uscire l'Ateneo dal Consiglio di Amministrazione dell'Istituto.
Trascurando però un piccolo particolare: lo Statuto dell'Ente. E cioè quella carta dei doveri approvata dalle parti e alla quale volenti o nolenti bisogna rigidamente attenersi fino a sua modifica (non ancora avvenuta).

Perciò le dimissioni del rettore dalla carica di presidente dell'Istituto Superiore di Giornalismo al momento attuale sono nulle, l'uscita dell'Ateneo dal C.d.A. dell'Istituto per il momento deve essere considerata solo una pia intenzione e l'Ateneo si ritrova con due strutture parallele (una più "fortunata" e l'altra meno dal punto di vista formale e dei risultati, ma questo è un altro discorso) difficili da giustificare essendo entrambe due sue strutture che hanno identica finalità.

Noi non vogliamo entrare nel merito della loro qualità (ma i figli delle galline bianche, si sa, hanno vita più facile) né dell'opportunità, dell'utilità e della razionalità dell'intera operazione. Ci limitiamo ad attenerci al suo aspetto formale.
Ed è su quello che vi invitiamo a riflettere, mentre una domanda ci frulla per la testa insistente: in un Paese libero che si professa democratico, "fare cultura" è un diritto di tutti coloro che, avendone i requisiti, intendono esercitarlo, oppure è irrinunciabile monopolio lobbistico di pochi (auto)eletti?

f. p.

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