diretto da Francesca Patanè

marzo 2007 numero 63

Sempre la stessa storia

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di Francesca Patanè

Basta, basta, basta!
Cambiano i protagonisti, cambiano i dettagli, ma la storia in quest'italico marciume è sempre la stessa.

Ieri (esattamente un anno fa) il censore, in un storia piccola di periferia, fu l'Ateneo di Palermo, col suo ridicolo procedimento disciplinare impiantato sul nulla per punire la giornalista colpevole di avere scritto e pubblicato sul suo giornale - questo, senza pretese, senza aspettative e soprattutto senza padroni - i nomi di due docenti palermitani - Salvatore Tudisca e Antonino Bacarella, due baroni della chiacchieratissima Facoltà di Agraria di Palermo - invischiati - e indagati - in indecorosi fatti di malauniversità a base di concorsi pilotati, commissioni addomesticate e "santini".

Oggi protagonista delle cronache nazionali è un caso di portata mediaticamente ben più rilevante, ma di analoga vergognosa censura, quello che gira intorno al portavoce del governo Silvio Sircana, fotografato mentre con la sua auto e senza scorta si accosta a un transessuale ai bordi di un marciapiede.

Giornalista e vittima sacrificale è stavolta Maurizio Belpietro (direttore di quel Giornale che fu di Montanelli), colpevole - per l'Ordine dei Giornalisti della Lombardia - di aver pubblicato, del blasonato protagonista di quella notte trasgressiva, nome e cognome, avendo deciso di non allinearsi alle scelte omertose di altri altrettanto blasonati professionisti dell'informazione.
Per Belpietro la gogna mediatica, complici colleghi "allineati e coperti", e un avviso disciplinare dall'OdG lombardo, censore, come allora l'Università di Palermo, della libertà di informazione, un avviso disciplinare che ricorda molto da vicino quel processo che il neotribunale dell'Inquisizione dello Steri palermitano inscenò per ben due volte, me presente la prima, me contumace per scelta, la seconda.

La motivazione anti-Belpietro dell'OdG lombardo: l'aver coinvolto il portavoce del governo in una storia "da marciapiede".

Dunque ancora una volta, spudoratamente e proditoriamente (certi avverbi sono particolarmente attuali), si confonde, o si finge di confondere, la causa con l'effetto. Perché le storie "da marciapiede", come le ha chiamate l'Ordine, sono addebitabili, caso mai, a chi, su quel marciapiede, ci va.

Intendiamoci, io non ho niente contro chi nella sua piena libertà di individuo e nel suo privato ritiene più idonee al proprio modo di essere certe scelte sessuali piuttosto che altre: i trans li abbiamo anche in Parlamento, dunque li abbiamo votati (e sinceramente - forse per avvenenza avrebbe vinto quella che ha acceso le fantasie sessuali di Sircana - ma quanto a intelligenza l'onorevole Luxuria ne fa cento di tanti altri deputaticchi colleghi di Transatlantico... peccato che sia indirizzata a un solo problema). Dunque nella nostra società i trans sono roba normale, perché ci stupiamo se vengono, per così dire, presi in considerazione anche dai nostri uomini di governo, che sono uomini come tutti, prima che politici?

Dunque, dicevo, non ho nulla né contro i transessuali né contro chi li frequenta. Ma non tollero, dico non tollero, che si voglia far passare per colpevole, se colpevole c'è, non chi fa certe cose, ma chi per motivi di lavoro - il dovere/diritto di informare - le racconta.

L'Università di Palermo non solo non prese le distanze, e anzi si affiancò complice, ai due suoi docenti indagati (le indagini sono ancora in corso), ma colpevolizzò la giornalista che stava facendo il suo mestiere, quello di raccontare sul suo giornale, ai suoi lettori, un fatto eclatante di malauniversità che stava toccando quella volta, ahimé, troppo da vicino, l'Ateneo siciliano.
Anzi, sinceramente - e scusate se insisto col raffronto - nel mio caso l'azione, di per sé vergognosa, fu, se possibile, ancora più vergognosa.
Perché per Maurizio Belpietro si può discutere sull'opportunità e la correttezza della sua scelta, ma sulla competenza dell'Ordine ad agire, essendo un fatto legato all'ambito giornalistico, stante l'attuale legge, non credo possano esserci dubbi.

Nel caso che mi ha vista involontaria protagonista, invece, l'indebita ingerenza dell'Università di Palermo è evidente: scrivere sul mio giornale non aveva niente a che fare con la mia attività di bibliotecaria all'Università. L'Ateneo ha osato sindacare e punire (con un licenziamento, come ricorderete, poi ritrattato solo per vigliaccheria), abusando del potere di datore di lavoro e con l'arma impropria del ricatto.

Grave, ancora più grave. Specie alla luce del fatto che, davanti a un abuso del genere, l'Ordine dei Giornalisti della Sicilia scelse, allineandosi al potere, di utilizzare il metodo-Pilato e al di là di una laconica e-mail e di una telefonata di tipo interlocutorio da parte del suo presidente - "Fammi studiare il caso e poi ti richiamo" - non andò mai.

Grave, e certamente impossibile da tollerare.
Così com' è impossibile da tollerare chi voglia far passare il caso Belpietro per un fatto politico.

Di politico non c'è nulla, al di là delle strumentalizzazioni di chi lo sostiene: Belpietro avrebbe pubblicato comunque, anche se il portavoce fosse stato di area governativa diversa, e chi non la pensa così o è stupido o è in malafede.

Belpietro avrebbe scritto comunque quel nome perché l'unica discriminante per un giornalista vero, un giornalista libero, cioè, un giornalista scomodo, l'unica discriminante, spartiacque tra scegliere di pubblicare e scegliere di ignorare, è, non può non essere, deve essere la verità.

Tutto ciò che segue, accertata la verità, rientra nei confini deontologici e di coscienza del giornalista, ma mai in quelli, censori, del "potere costituito", sia che esso si chiami Ordine dei Giornalisti, sia che si chiami Garante della privacy.

Per questo motivo io sto dalla parte di Maurizio Belpietro e condivido la sua scelta di pubblicare nome e foto, e gli esprimo pubblicamente tutta la mia solidarietà.

Per questo motivo mi aspetto ora che il Garante della privacy Francesco Pizzetti faccia in tutta coscienza un passo indietro, onesto e serio, a favore della democrazia e della libertà.

E mi aspetto pure che, nell’attesa, tutti i colleghi dell'informazione, anche quelli che all'inizio hanno gridato allo scandalo, decidano per la "disobbedienza civile", contro il bavaglio imposto alla stampa libera da provvedimenti liberticidi e troppo tempestivi per essere credibili (da cui lo stesso Sircana, con una impareggiabile lezione di stile, ha preso le distanze).

E ben venga il minacciato carcere per i "dissidenti": niente ha più valore della difesa dei propri valori.


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