aprile 2007 numero 64

attualità
Leopardi e pecore nello zoo accademico del Masia-pensiero. In esclusiva per “Ateneo Palermitano”
Pubblichiamo, in forma di resoconto quasi stenografico, l’intervista-fiume
ad Antonello Masia, direttore generale dell’Università italiana
 

di  Francesca Patanè

nella foto: Antonello Masia durante l’intervista

Come non disse Garibaldi, disobbidisco, Signor Direttore Generale dell'Università italiana: tengo troppo alla mia autonomia professionale per raccogliere  il suggerimento, pure affettuoso e informale, del Suo entourage.
Perciò spero di meritare la Sua fiducia anche a “scatola chiusa”.
Sono certa che condividerà.
f.p.

 


La poltroncina, nel corridoio d’attesa, ha una seduta minimale, di quelle a prova di dieta (ah, quell’abbacchio! croce e delizia dei miei soggiorni romani!), ma sono così contenta di avergli strappato quel sì che quasi non me ne accorgo.

Qualche convenevole con l’ottimo addetto stampa (“Se il portiere mi avesse avvertito, sarei venuto a prenderti giù”… “No problem, ho indovinato subito la strada”… Bugia: per districarsi nel dedalo di uffici, ale, scale e corridoi del Ministero dell’Università e della Ricerca italiano occorrono almeno tre lauree e io, ahimé, ne ho una sola).

Lui mi aspetta fuori dal suo ufficio e mi allunga la mano cordiale, un sorriso a trentadue denti (circa, non li ho contati), elegantissimo.
Lui è Antonello Masia, il direttore generale del Mur, quello che sta facendo fare il fegato fradicio a tutti quegli italiani con tanto di sentenze esecutive tra le mani a loro favore, che il direttore dovrebbe eseguire e non esegue. Ma non anticipo, Antonello Masia ha una risposta pure per questo; ha sempre una risposta, lui, forse è per questo che sta a quel posto da tanti anni (trentasette nella Pubblica Amministrazione, quanto non l’invidio! con quello che sono certe Pubbliche Amministrazioni oggi).

“Prego, si accomodi”, due divani vicini, tre persone a sedersi (una è di troppo, ma l’addetto stampa se l’è guadagnato quel posto di “osservatore”, è così gentile e disponibile: decido per una volta di non tagliare il capello in quattro).
 

- Eccoci, finalmente. Devo ritenermi una privilegiata?

- Generalmente io non ho rapporti istituzionali coi mass-media: c’è l’ufficio stampa del ministro per questo. Una privilegiata? Per certi versi sì: ho deciso, col mio addetto stampa, di dedicare un po’ più attenzione ad alcuni aspetti della comunicazione.

- Cominciamo subito con una domanda difficile. Lei condivide il parere del ministro Mussi, raccolto da un quotidiano nazionale: “L’Università? E’ un bordello”?

- Ma ha rettificato, dopo! E poi, come spesso anche lui dice, il ministro vive di pane e polemiche, gli piace gettare sassi nello stagno. Credo sia stato questo lo spirito con il quale ha detto quella frase.

- Lei comunque è d’accordo? Come giudica la situazione generale dell’Università italiana in questo momento?

- Io credo che in qualsiasi organizzazione, pubblica o privata, esistano le pecore bianche e le pecore nere. La situazione nel nostro sistema universitario è a macchia di leopardo. Abbiamo più di novanta Atenei…

- Novantaquattro, per la precisione, se nel frattempo non se n’è aggiunto qualche altro…

- Be’, sì, comprese le Università telematiche il sistema viaggia verso le cento strutture, che però non sono tante come si dice.

- Fino a qualche anno fa erano settantasette.

- Ma intorno al 2001-2002. Col piano 2004-2006 c’è stata l’istituzione di due nuove Università non statali – noi non abbiamo istituito Università statali nel corso della precedente programmazione del sistema universitario – poi intorno al 2004-2005 abbiamo avuto, come dice il ministro Mussi, “l’infornata” di Università telematiche, in virtù del provvedimento Moratti-Stanca (Decreto Legislativo del 17/4/2003, Gazzetta Ufficiale n. 98 del 29/4/2003, n.d.r.), che è stato una risposta alle esigenze più attuali.

- … e che però non ha fatto bene all’Università italiana.

- Il quadro normativo è coerente con le risposte che si volevano dare. Forse è stato dato un po’ troppo spazio a certe iniziative, che alcuni giudicano di spessore scientifico-accademico. Comunque, poiché tutti i decreti prevedono una fase di sperimentazione e una valutazione dell’operato a distanza di tre, cinque e sette anni, siamo ormai prossimi alla prima valutazione.

- Ci anticipa qualcosa?

- Gli Atenei telematici nati per primi – il Marconi e poi l’UniNettuno e la Telma – cominciano a “viaggiare”, chi più chi meno. L’Università Marconi, la prima istituita, per esempio, secondo gli attuali dati in mio possesso, ha quasi 7.500 iscritti.

- Il continuo proliferare degli Atenei ci porterà ad avere un’Università in ogni condominio.

- Mi creda, non siamo tanti. Il problema nostro è che ormai esistono moltissime tipologie di Università - Poli di eccellenza, Università medie, di antica tradizione, nuove Università, Università non statali, Università telematiche – e tutte vengono trattate allo stesso modo. Invece bisognerebbe avere il coraggio, come succede in altri Paesi - in Europa, ma anche in America, India, Cina e Giappone – di diversificarle. Non tutte le Università devono nascere per fare ricerca scientifica e formazione: ci sono Atenei che fanno sia l’una sia l’altra, con aree di efficienza differenziate.

- Che cosa potrebbe mediare l’Università italiana dalle più felici esperienze straniere?

- E’ molto difficile dirlo, perché stiamo parlando di Istituzioni collocate in contesti estremamente diversi. Importare un modello americano nelle nostre Università, per esempio, non è possibile.

- Adattandolo, naturalmente…

- Pur adattandolo, è impossibile. Ci abbiamo già provato negli anni Ottanta.

- In America non esiste il Ministero dell’Università e della Ricerca.

- Il Ministero dell’Università e della Ricerca esiste anche all’Estero. Ma esistono anche, per esempio, Paesi come la Germania in cui l’istruzione universitaria è demandata ai Lander, alle regioni, come le chiamiamo noi.

- Noi abbiamo l’autonomia, che però spesso diventa libero arbitrio.

- L’autonomia è prevista nel disegno della nostra Carta Costituzionale, ma fu avviata in maniera significativa solamente con la stagione di riforme del Ministero-Ruberti, alla fine degli anni Ottanta. Quindi per noi è un modello abbastanza recente, ha poco più di venticinque anni. Perciò, come tutte le cose nuove, ha bisogno di essere sperimentata e collaudata. Anche perché fu avviata senza una cornice normativa che ne potesse fissare vincoli e paletti.

- Ma stiamo parlando degli anni Ottanta…

- Stiamo parlando della fine degli anni Ottanta - primi anni Novanta: sono passati solo poco più di quindici anni.

- Solo?

- Solo. Nei processi culturali e sociali questi sono i tempi che si prendono in considerazione.

- Siamo nel 2007. Ci sarebbe stato il tempo per fissare vincoli e paletti.

- Ma di paletti ne sono stati messi tanti, via via. L’autonomia non è nata in tutte le sue caratterizzazioni già completa: è passata attraverso varie fasi – quella statutaria, quella finanziaria nel ’93, quella didattica nel ’97 - e ha ancora bisogno di porre alcuni vincoli, di estrinsecarsi in una diversa modulazione del rapporto tra centro e periferia. Non è un caso che si parli di “governance”. Governance non è solo quella delle singole sedi universitarie e del diverso atteggiarsi del loro modello organizzativo; riguarda anche i vari aspetti dei rapporti che intercorrono tra un’Amministrazione di indirizzo e di programmazione come il Ministero e le singole Istituzioni universitarie deputate per legge alla formazione e alla ricerca.
Quindi l’autonomia deve essere ancora rivista, sotto questi aspetti. Non so se questa fase si aprirà con l’attuale governo, ma definirne alcuni contorni, accentuandone il ruolo della responsabilità e della valutazione, sarà certamente nei programmi del nostro prossimo futuro.

- Torniamo all’autonomia come libero arbitrio. I processi di mobilità, per esempio, sono gestiti molto male dalle Università, che continuano a preferire soluzioni antieconomiche di nuovi concorsi alle domande di mobilità di personale universitario già formato e quindi immediatamente utilizzabile. Al di là dell’opportunità o meno di mantenere vivo un Ministero per l’Accademia italiana, come conciliare, stante le attuali disposizioni legislative, l’autonomia degli Atenei con la necessità di controllo ministeriale? In che modo il Mur potrebbe riappropriarsi di questa prerogativa senza violare il concetto di autonomia?

- Quello che dice riguarda una criticità di sistema che negli anni ha influenzato anche le politiche di intervento sugli Atenei.
E’ il cambiamento di mentalità che può ovviare a certi tipi di condizionamento. In Italia vogliamo un Ateneo in ogni quartiere, l’Università dentro casa! Questo, da parte dell’Accademia, è un atteggiamento negativo che noi abbiamo cercato di arginare, nella quattordicesima legislatura soprattutto, in due modi: incentivando la mobilità attraverso la messa a disposizione di risorse per chiamate di personale esterno, cioè facendoci carico del 95% del trattamento economico se un’ Ateneo chiama personale che non ha prestato servizio al suo interno negli ultimi sette anni; e disincentivando le chiamate di personale non particolarmente eccellente attraverso misure che individuano la capacità dell’Ateneo di fare attività di ricerca riconosciuta a livello internazionale.

- Io però prima mi riferivo anche alla mobilità del personale tecnico-amministrativo.

- Non per svilire l’argomento, ma non è l’aspetto relativo alla struttura amministrativa degli Atenei quello più significativo e rilevante per perseguire politiche di eccellenza. Il problema della mobilità del personale tecnico-amministrativo esiste in tutti i comparti della Pubblica Amministrazione. Non possiamo prendere ad esempio gli Stati Uniti, dove si è avvezzi a cambiare città-Stato: lì esistono misure di carattere sociale che incentivano la mobilità. In Italia pensare a migrazioni di lavoratori da una parte all’altra del Paese è un po’ più difficile, per una serie di ragioni socio-economiche.

- Ripeto la domanda. Perché, secondo lei, gli Atenei, piuttosto che dare spazio alle richieste di mobilità di personale già formato, preferiscono avviare nuove e più costose procedure concorsuali?

- Perché oggi si preferisce accompagnare i giovani nel loro processo formativo sin dall’inizio, piuttosto che dover adattare personale formato, ma condizionato da politiche di formazione di altri soggetti. Questo sì che sarebbe diseconomico: è molto più difficile riformare e riqualificare, piuttosto che formare per la prima volta. Personalmente anch’io mi sono occupato di mobilità, ultimamente, e mi sono trovato dinanzi a paletti e a condizionamenti dovuti a politiche sindacali… ma meglio non parlarne. Quello di cui possiamo discutere per il momento è la mobilità del personale docente e ricercatore.

- Cambiamo argomento, invece, e parliamo di malauniversità. Fabio Mussi poco tempo fa ha dichiarato che, nell’eventualità di processi, il Ministero si costituirà parte civile. Fumo negli occhi per calmare le acque o impegno preciso?

- Questa è una scelta che io condivido pienamente. Tanto più che tutto quello che sta accadendo incide sul prestigio dell’Istituzione universitaria. Dunque bene fa il ministro a decidere in questo senso.

- Anche se la malauniversità riguarda l’ambito della docenza?

- Soprattutto! Però non si deve fare, come si dice, di tutta l’erba un fascio. Nel corso degli ultimi sei anni si sono svolte quasi 32.000 procedure di valutazione comparativa. Se in sei anni e in una tale messe di procedure esce fuori qualcosa di patologico non posso dire che sia fisiologico, però può accadere.

- Errare è umano, ma perseverare…

- Occorre prenderne atto. E’ bene comunque che questi fatti siano sanzionati, come dice il ministro, anche sul piano civile, perché costituiscono dei danni all’immagine istituzionale dell’Università, danni che diventano strumentali poi per attuare altri tipi di politiche.

- Secondo lei, quali sono i mali dell’Università italiana da combattere prima per ricostruire l’immagine di cui parla?

- Il problema sta tutto nella valutazione. Di tutti gli aspetti, da quelli istituzionali, a quello della didattica e della qualità dei corsi, a quello della ricerca scientifica e dei suoi risultati. Questo è un problema che in Italia è stato affrontato solo a partire dal 1996-97. La “accountability”, come si dice, ovvero la “rendicontabilità” di ciò che si fa quando si maneggiano risorse pubbliche, è venuta fuori da poco meno di dieci anni: è stato necessario prima di tutto disseminare la cultura della valutazione in un ambiente generalmente refrattario a questi concetti. Si sono ottenuti moltissimi risultati in questi anni, adesso è arrivato il momento di costituire un sistema di valutazione veramente efficace ed efficiente. Il ministro ha portato avanti questo progetto attraverso la costituzione dell’Agenzia di valutazione che speriamo veda la luce nei prossimi mesi. Io credo che con la valutazione molti dei problemi dell’Università italiana potranno essere risolti.

- Ma il male più grave qual è?

- Il male più grave è che non esiste un ricambio generazionale. Dunque avviare una seria politica di reclutamento dei giovani: questo occorre fare con più urgenza. Sempre che si abbiano a disposizione le risorse necessarie.

- Lei crede ai codici etici che qualche Ateneo si è dato, o a mali estremi, come si dice, estremi rimedi?

- Il codice etico è certamente una risposta, che non so però quanto effettivamente possa essere efficace. I codici etici incidono sulla mentalità, che purtroppo non si cambia facilmente, sicuramente non nell’arco dei quindici anni a cui facevamo riferimento prima: molto spesso il cambiamento è generazionale.

- Dunque noi non lo vedremo, probabilmente.

- Questo no, non bisogna essere così pessimisti perché il sistema è cambiato moltissimo negli ultimi quindici anni: politiche serie, incisive e soprattutto condivise possono dare risultati eccellenti.

- Tornando all’argomento malauniversità: concorsi truccati…

- … nepotismo…

- Sì, nepotismo… baroni che assicurano carriere a figli, nipoti, mogli, generi, nuore, sorelle, fratelli, amici, amanti… E poi ancora mafie accademiche, commissioni addomesticate, brogli e intrallazzi per favorire i “soliti noti”… Nonostante le numerose denunce, la vasta eco sulla stampa nazionale e internazionale, le dichiarazioni del ministro che prende le distanze e condanna pubblicamente il malcostume generalizzato, non succede niente, o quasi. Secondo lei, dov’è che si inceppa la macchina?

- Non bisogna dare alle baronie un significato così negativo. Il “barone” era quello che “faceva” scuola, che formava i giovani, che li portava avanti e riusciva a farli arrivare alla cattedra.
Poi c’è la degenerazione, certo, ma questo è l’aspetto patologico; io però, quando penso al barone, penso al “maestro”, uno “strumento” di formazione per i giovani che, in tanti secoli di tradizioni culturali e in ogni settore, ha dato i suoi risultati.

- Se parliamo di malauniversità è chiaro che facciamo riferimento all’aspetto patologico, ma è proprio quest’aspetto a essere particolarmente diffuso. Ripeto la domanda: davanti a tanto malcostume, tutto rimane pressoché fermo. Dove si inceppa la macchina, secondo lei?

- Mi dispiace, ma devo ritornare al discorso di prima. Innanzi tutto è una questione di cultura. Dunque occorre parlare ancora di valutazione. Già il fatto che molte Università stiano cominciando a capire che se non reclutano i migliori perdono in termini non solo di immagine, ma anche di risorse, sta portando frutti significativi nell’ambito del sistema. Ma certe patologie non si possono cambiare irreggimentando le norme sanzionatorie, oppure modificando le procedure di reclutamento, questo è certo. I fenomeni criminali esistono da quando esistono i gruppi organizzati, sin dall’epoca dell’uomo delle caverne. Se a questo aggiungiamo che nei primi anni Cinquanta i docenti universitari erano 1.500-1.600 e oggi sono 60.000 e che le procedure di reclutamento da poche unità all’anno sono diventate negli ultimi cinque anni 32.000, come dicevo prima, comprendiamo bene che il fenomeno criminale ci sarà sempre e che sarebbe utopistico pensare che possa esistere una società normata in cui questo fenomeno cesserà di esistere. Tant’è che qualsiasi tipo di società sente l’esigenza di dettare norme penali.

- Lei mi ha spiegato “perché” si inceppa la macchina, io le avevo chiesto “dove”. Potrebbe, per esempio, la Magistratura essere in qualche modo responsabile di questo immobilismo?

- No, assolutamente. La Magistratura su queste cose, laddove è stata chiamata in causa, è sempre intervenuta abbastanza pesantemente. E’ vero invece che spesso si crea clamore intorno a ciò che clamore non dovrebbe destare. Il fenomeno criminale non si riuscirà mai a estirparlo completamente, esisterà sempre, è un discorso statistico. Quindi che ci siano due, tre casi l’anno, quando di procedure in un anno se ne fanno mille, è normale. Cioè, è normale che ci siano, ma perché è il fenomeno del reclutamento a essersi ingigantito.

- Ma secondo lei è “normale” che un candidato, prima di presentarsi a un concorso, senza avere particolari doti divinatorie, metta per iscritto il nome del vincitore? E’ accaduto diverse volte.

- Il discorso è molto semplice da capire. Noi attualmente abbiamo 370 settori scientifico-disciplinari e 20.000 professori (18.651 docenti di ruolo, n.d.r.) e ciascuno di questi professori afferisce a un settore. Chi pubblica, chi produce, chi emerge in un ambito scientifico-accademico si conosce! Se c’è un candidato che ha dimostrato, attraverso la sua produzione scientifica, di essere una persona valente e si bandisce un concorso per ordinario in quel settore, molto probabilmente quel candidato, all’interno dell’Ateneo che ha bandito il concorso, è il predestinato a ricoprire il posto di quel settore! Ma perché ha i numeri, e tutti nell’ambiente lo sanno! Il problema nasce quando a vincere, invece, è chi non ha produzione scientifica.

- Si parla anche di bandi-fotografia, cuciti sulle caratteristiche del candidato predestinato a vincere… La predestinazione qualche volta si costruisce a monte… Succede, o no?

- Certo che può succedere. Ma, come ho detto prima, sono fatti patologici, questi, fatti che costituiscono l’eccezione, non la regola. Altrimenti quei 60.000 docenti di prima, seconda fascia e ricercatori che stanno in cattedra sarebbero tutti cretini! Non è così! Vogliamo capire che non è così? Sono
pa-to-lo-gie! Quando io le dico che su 32.000 procedure di valutazione comparativa ci saranno state cinque, sei, sette che non sono andate secondo regole di correttezza, trasparenza, efficacia ed efficienza, quelle sono da considerare eccezioni!


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