gennaio 2008 numero 73

attualità
Scienza e Potere, binomio impossibile
E’ giusto affidare al solo “sapere ufficiale” i destini della ricerca italiana?
 

di  Eliodoro Pomar

nella foto: Colombo e i Dotti di Salamanca

La relatività della scienza e l’immutabilità del “sapere ufficiale”


E’ noto che i re di Spagna, prima di accedere alla richiesta di Colombo, consultarono i rappresentanti del “sapere ufficiale” impersonato dai Dottori dell’Università di Salamanca, la più importante del loro regno.
I Dotti discussero insieme per molto tempo, in privato e pubblicamente, le idee di Colombo ed emisero abbastanza concordemente la loro stroncatura: l’impresa di Colombo non aveva basi scientifiche e quindi sarebbe ingloriosamente e rovinosamente fallita.
Su questo parere così autorevole i re di Spagna negarono qualsiasi aiuto a Colombo e se la vicenda si fosse chiusa - com’era estremamente probabile -seguendo il loro illuminato parere l’America non sarebbe stata scoperta, quando invece lo fu, e la storia dell’umanità ne sarebbe stata influenzata in modo importante. Avevano avuto dunque torto i Dotti? Certo che no: la Cina non era dove Colombo era andato a cercarla.

Ma la ragione non era neanche dalla parte del sapere ufficiale: uno degli argomenti “scientifici” più accreditati (come la maggior parte degli altri, quasi tutti tratti dall’interpretazione delle Sacre Scritture) – quello, cioè, che il naufragio si sarebbe immancabilmente verificato sulle scogliere che circondavano la montagna del Purgatorio - nessuno degli scienziati di oggi si sentirebbe di sottoscriverlo.

Certo, la scienza di allora non è la scienza di oggi. Ma il punto sta proprio qui. La scienza di ieri non è quella di oggi, proprio come la scienza di oggi non sarà quella di domani.
Basta vedere dalla mela di Newton com’è cambiata la Fisica, per esempio.
Di certo c’è soltanto che se, a torto o a ragione, il parere dei saggi avesse prevalso, l’America avrebbe forse aspettato a lungo prima di essere scoperta (e saccheggiata!).

Ciò posto, la domanda è: dato che il parere del sapere ufficiale è comunque molto importante e deve essere senza dubbio raccolto, è giusto che esso sia il solo a dover decidere dell’opportunità o meno di effettuare nuove ricerche orientate anche in direzione diverse da quelle da esso riconosciute come valide? Certo che no.
Intanto l’odierna versione dei “Dotti di Salamanca” - i nostri docenti universitari - non sono soltanto uomini di scienza, ma anche uomini soggetti alla passione di altri tipi di considerazioni. Spesso rappresentano interessi di casta (le “baronie”…), o interessi industriali di parte, oppure sono influenzati da considerazioni di scuola o di carriera. E considerano sempre il loro personale parere l’ultimo e il definitivo.

Eravamo al principio degli anni Cinquanta quando chi scrive, discutendo con un amico, professore di Astronomia, della possibilità che offrivano i razzi a riguardo delle esplorazioni dello spazio si sentì rispondere con un accento che non ammetteva repliche: “Questi sono sogni! Mai, dico mai, l’uomo riuscirà a lasciare la Terra!”.
Quel professore era un vero scienziato, in buona fede, e stimato nell’ambiente accademico e anche fuori: un’Autorità nel suo settore.
D’altra parte, solo sessant’anni fa il 99% dei suoi colleghi la pensava come lui, e sappiamo oggi quale peso avrebbe dovuto essere dato alle sue affermazioni così categoriche.

Abbiano sotto gli occhi, del resto, la quasi contemporanea storia dei “ragazzi di via Panisperna” guidati da Fermi. Se quel gruppo (che tuttavia pesava all’interno dell’Università di Roma) non avesse trovato un “mentore” del calibro del fisico e ministro dell’Economia Orso Maria Corbino - sensibile alle esigenze dell'industria, specie del settore elettrico, e consapevole dell'importanza delle applicazioni della scienza - a garantirgli i fondi necessari alla ricerca sull’atomo e sulla sua struttura, la fissione avrebbe forse avuto altro padre e il genio dei componenti di quel famoso gruppo sarebbe andato perduto. Non solo. Se il professor Corbino non fosse morto in un momento così intempestivo, è molto probabile che Fermi non avrebbe accettato di abbandonare l’Italia dopo avere ricevuto il Premio Nobel per le sue ricerche, in quanto il vero motivo del suo espatrio, assai più che la discendenza da famiglia ebraica della moglie, fu il venir meno dei fondi in coincidenza con la scomparsa del professore Corbino.

Ancora una volta gelosie, concorrenza ed interessi di carriera contro il merito e il sapere di chi è capace di vedere più avanti degli altri.

Nell’Italia rinascimentale – in particolare in quella piccola parte del Paese in cui essi videro la luce – ci fu una fioritura di geni unica nella storia del mondo. Pittori, scultori, architetti, scienziati, da Leonardo a Michelangelo, da Brunelleschi a Cellini, sembrano essersi riuniti nel tempo e nello spazio, in una meravigliosa fioritura di scienza, bellezza e abilità.
Forse questa straordinaria concentrazione non è frutto del caso, piuttosto la conseguenza dell’esistenza di un ambiente umano che possedeva tutte le condizioni adatte a favorire lo sviluppo delle eccezionali qualità di alcune creature prodigiosamente dotate.
Se è così – ed è davvero scoraggiante pensarlo - a quanti potenziali geni ha dovuto rinunciare l’umanità per la sua insipienza e per la sua incapacità ad organizzarsi!

Avrebbe potuto, per esempio, Leonardo, nella nostra società, realizzare quello che realizzò nella sua?
Chi mai gli avrebbe dato la possibilità di riflettere sulla natura, che egli invece poté contemplare a suo agio; chi gli stimoli che trovò nella bottega del Vasari; chi il denaro per disegnare e costruire le sue meravigliose macchine; chi il denaro per sperimentare nuovi metodi pittorici e realizzarli, talvolta con risultati deludenti, ma sempre con genialità di concezione ed impareggiabile abilità di esecuzione?
Insomma, chi gli avrebbe concesso di inseguire i suoi sogni? E chi, alla fine della sua lunga e difficile vita, vedrebbe oggi uno dei più potenti re della terra chinarsi sul suo corpo morente sussurrandogli parole di ammirazione e di conforto in un castello concessogli con magnificenza e rispetto?

Niente di tutto questo sarebbe riservato ad un Leonardo edizione ventunesimo secolo.
Tutt’al più, ammesso che riesca a seguire le sue naturali tendenze, lo troveremmo con un dottorato di ricerca e uno stipendio (precario) di meno di mille euro al mese impiegato in qualche ricerca farmaceutica, oppure sulle monofibre tanto di moda. Beninteso, se tutto gli andasse bene.

Quanti potenziali Leonardo saranno andati perduti nei secoli?
Diceva Machiavelli che per fare il principe occorrono due cose: l’uomo e l’occasione, perché senza l’occasione l’uomo resta nell’ombra e senza l’uomo l’occasione andrebbe perduta. Del resto, qualunque agricoltore sa che il seme, anche di specie pregiata, se cade sulla pietra difficilmente riesce a germogliare.

E’ triste concludere che l’organizzazione della nostra società non è delle migliori per mettere il genio nelle condizioni di poter dare all’umanità intera il meglio di sé.


Giusto affidare alle Università il ruolo-guida della ricerca?


Traversiamo un momento storico nel quale la civiltà deve fare appello a tutte le sue risorse di innovazione e di iniziativa per difendere le posizioni di benessere e sicurezza raggiunte nel suo plurisecolare sviluppo.
Molti sono i cambiamenti che è necessario fronteggiare, ma la chiave principale del mutamento consiste nel fatto che si avvia a conclusione l’era dell’energia a basso prezzo ricavata mediante la combustione degli idrocarburi.

Per attuare le trasformazioni che si renderanno via via necessarie nei processi di produzione finora seguiti si sta tentando di mobilitare le Università, affidando ad esse i fondi necessari per selezionare e appoggiare tutte le idee che riterranno valide e suscettibili di sviluppo industriale.

Ancora una volta si pone quindi il problema di stabilire se sia opportuno affidare alle Università un incontrastato ed esclusivo ruolo-guida nell’innovazione scientifica, e soprattutto tecnica, del futuro.
Tutto quello che si è già detto per il passato sembrerebbe indicare in questa scelta un imperdonabile errore, ma è utile, prima di trarre conclusioni, esaminare bene la situazione attuale.

Stabilito che il parere della “scienza ufficiale” è opportuno, anzi, necessario, occorre vedere dunque se conviene che esso possa essere il solo a decidere su una materia così delicata e gravida di conseguenze per tutta la società.

Ci sono già a prima vista ragioni per le quali affidare alle Università questo ruolo guida non sembra opportuno.
La prima è che nel corso del tempo i rapporti fra Università ed industrie di produzione sono notevolmente mutati.
Nel recente passato, infatti, in Italia esisteva una grande industria che era perfettamente in grado di sviluppare autonomamente prototipi di nuove macchine, dalla loro ideazione fino alla fase industriale della produzione di serie, nei casi più impegnativi mediante l’integrazione di contributi economici a carico dello Stato, concessi dai Ministeri competenti.
Oggi questa possibilità è molto più limitata, anche perché le grandi realtà industriali si sono ridotte di numero e di capacità, essendo il meccanismo italiano della produzione costituito oggi in grandissima prevalenza da industrie di piccola e piccolissima entità per numero di lavoratori e per consistenza di capitali e di capacità di progettazione autonoma.

Ne deriva, come prima conseguenza, che un finanziamento affidato alle Università sarebbe immediatamente impiegato in iniziative di ricerca proposte dalle Università stesse, e verrebbero accantonate tutte quelle proposte dalle industrie, che hanno ormai, per le ragioni citate, uno scarsissimo potere contrattuale. Ciò priverebbe le industrie dei mezzi necessari per passare dall’idea alla sperimentazione, necessaria per arrivare alla produzione di serie.

Una seconda ragione è costituita dal fatto che le Università sono per natura più portate a favorire ricerche di carattere teorico, piuttosto che ricerche di tipo applicativo.

Già per queste due ragioni, quindi, il concentrare nelle Università il potere di scelta circa il soggetto della ricerca si risolve in un errore di fondo, in quanto ne soffrirebbe la ricerca applicata che, come meglio diremo in seguito, è l’unica che può fornire elementi a sostegno della produzione di beni tecnici di largo consumo.
Esiste poi sempre il rischio che i fondi destinati alla ricerca ed affidati alle Università finiscano impiegati per scopi che con la ricerca non hanno nulla a che vedere.

Ma c’è un’altra ragione molto più sottile per sconsigliare la delega alle Università dell’esclusivo potere di indirizzo della ricerca scientifica e soprattutto tecnica.
Un docente della Sorbona disse un giorno a chi scrive che le Università sono Organismi inadatti ad una vera ricerca innovativa perché i docenti sono costituzionalmente degli accaniti conservatori. E in realtà essi si considerano in possesso della verità e sono, di conseguenza, restii ad abbandonare il certo in loro possesso per l’incerto da investigare.
Per questo, quando vanno avanti, lo fanno a piccoli passi, preoccupati di non mettere a rischio il proprio prestigio e la propria credibilità, specie nel campo della ricerca tecnologica che impone la prova del nove della riuscita.
C’è un’ultima considerazione da fare.

Ben difficilmente l’obiettivo di una ricerca può essere definito, e quindi finanziato, in maniera precisa prima che la ricerca stessa abbia inizio, e anche durante possono sorgere circostanze tali da indirizzare diversamente gli studi che si stanno compiendo. E’ quindi concettualmente difficile inserire queste mutevoli esigenze nello schema di un Organismo rigido qual è l’Università.

In realtà la ricerca è affidata soprattutto alla fantasia e alla necessità, all’occorrenza, di poter derogare dal programma prestabilito.
Per questo motivo un Centro di ricerca organizzato in maniera autonoma ed elastica potrà meglio soddisfare le esigenze delle nuove cognizioni da acquisire.

Meglio sarebbe, quindi, che le Università si assumessero esclusivamente l’onere della formazione e lasciassero quello della ricerca ad Organismi più flessibili. D’altra parte, tutte le ricerche fondamentali oggetto delle attuali innovazioni sono nate al di fuori delle Università, in Centri specializzati o grazie a ricercatori indipendenti, operanti al di fuori delle strutture ufficiali.


C’è ricerca e ricerca


Se esaminiamo a grandi linee il quadro della destinazione dei fondi assegnati alla ricerca è facile constatare quanto segue:

1) sono abbastanza coperti i settori riguardanti la ricerca fondamentale (struttura della materia, astronomia, spazio e quanto direttamente o indirettamente riconducibile a questi settori)
2) sono parzialmente coperti i settori delle cosiddette energie alternative, che tuttavia, malgrado gli sforzi, stentano a decollare
3) sono largamente coperti i settori della ricerca farmaceutica e sanitaria
4) sono drammaticamente scoperti, invece, i settori della ricerca tecnologica e la relativa sperimentazione, senza la quale è impossibile la ricerca di nuove soluzioni a problemi tecnologici da tempo risolti, in modo però oggi giudicato insoddisfacente. In tale settore ci si trova anzi a dovere combattere spesso contro le aziende produttrici dei mezzi attualmente in uso, che vedono nell’innovazione un’aggressione ulteriore alle posizioni che tengono spesso a fatica e che sono minacciate anche da una concorrenza via via più agguerrita.

E’ necessario un breve commento su quanto detto in sintesi precedentemente.
Tutti i settori della ricerca sono importanti, tuttavia vi sono delle priorità.
I settori di cui al punto 1), ai fini delle situazioni delle quali stiamo parlando, non possono dirsi certo prioritarie e mobilitano impegni economici molto rilevanti.
Quanto al punto 2), occorrerebbe fare una selezione fra le opzioni attualmente seguite ed attivare una differente distribuzione delle cifre destinate a questo tipo di ricerca.
Per ciò che riguarda il punto 3), le spese relative al settore sanitario sono indiscutibilmente importanti e sono comunque appoggiate ad industrie di produzione in grado di sostenere bene, con i ricavi, le ricerche più importanti. Sono inoltre ben organizzate le Università che con i loro laboratori e gli specialisti che vi lavorano, a spese delle Stato, possono integrare e sostenere lo sforzo fatto dalle relative industrie di produzione.
Quanto alla ricerca tecnologica invece, come abbiamo già detto, da essa dipende in larga misura la produzione industriale di macchine di larghissimo consumo (auto, industria del freddo, trasporti, comunicazioni, ecc.), che costituiscono larga parte dei posti di lavoro di tanta parte della società.
Se non si riuscirà rapidamente a rivitalizzare quest’àmbito delle attività produttive deriveranno danni assai rilevanti alla società civile e all’equilibrio interno, nonché allo sviluppo del nostro Paese.

Dall’energia alla meccanica, all’impiantistica, ai mezzi di trasporto sulla terra, sul mare e nell’aria, tutto dipende da quanto si riuscirà ad innovare in questo settore.
Come già detto, occorre selezionare, specie in questo campo, tutte le idee nuove, sia utilizzando gli Enti di cui disponiamo potenziandoli, sia creando Organismi nuovi per coprire i settori scoperti.

La prima cosa è far conoscere al più gran numero di persone possibile quello che si è brevettato o si sta portando avanti previo esame preventivo da parte di un Organismo tecnico - da costituire presso l’Ufficio dei Brevetti italiano - che potrebbe passare le informazioni da lui stesso elaborate alle Camere di Commercio, che potrebbero a loro volta informare le industrie eventualmente interessate.

La seconda è di rendere possibile mediante una procedura amministrativa semplice ed efficiente congrui aiuti a coloro i quali (Enti o singoli individui) manifestassero interesse alla realizzazione delle macchine o dei procedimenti attuativi.

Altro settore nel quale occorrerebbe intervenire è l’assistenza legale alla protezione dei brevetti di interesse nazionale nei confronti dell’illecita concorrenza: non sempre le aziende produttrici, infatti, sono in grado in grado di assicurare una efficace protezione di quanto hanno realizzato.

Queste le grandi linee di azione che si dovrebbero seguire. Se l’avvenire della nostra industria dipende dall’innovazione occorre fare ogni sforzo per proteggerne lo sviluppo.


 


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