diretto da Francesca Patanè

marzo 2008 numero 75

Schiavitù di stampa

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di Francesca Patanè

Più volte nei miei articoli ricorre il concetto di libertà.
La libertà di pensiero è il punto di partenza di ogni battaglia civile condotta con onestà di intenti.
La libertà di espressione è il più bel regalo di uno Stato democratico a ogni suo cittadino.

Esiste in Italia una stampa libera? O non è piuttosto tutta una mistificazione?
Ci sono cose che, come cantava Milly tanti anni fa, si fanno ma non si dicono. Oppure si ammettono con difficoltà e sempre minimizzando.
Questo accade soprattutto nel mondo dell’editoria e della carta stampata.

Ogni anno in Italia per l'editoria si stanziano milioni di euro: si parla di 700-750 in un anno, che in questo 2008 potrebbero lievitare a 1000.
Ciò è possibile grazie a una legge, la 416 del 5 agosto 1981, i cui paletti, con meccanismi più o meno contorti, vengono spesso aggirati. Così un flusso notevolissimo di denaro pubblico si disperde in mille canali per approdare – sotto forma di contributi diretti o indiretti (come i rimborsi per le spese della carta o le agevolazioni postali) – nelle casse dei grandi gruppi editoriali, di vere o finte cooperative, di giornali e organi di stampa di partiti politici, di agenzie, radio e televisioni locali.
Accrescendo gli utili degli azionisti delle grandi testate, alimentando sottogoverno e clientele e consentendo redditi ai limiti della legalità a destra, a sinistra e al centro.

Anche in altri Paesi d’Europa lo Stato interviene nel settore dell’editoria, certo, ma, diversamente che in Italia - dove una legge che avrebbe dovuto favorire il pluralismo e la nascita di nuovi mezzi d’informazione ha finito per aiutare chi è già sul mercato da tempo (tanto più che la norma impone cinque anni di autofinanziamento prima di poter accedere al contributo statale) – negli altri Paesi europei la legge serve effettivamente - attraverso l’incentivazione della piccola imprenditoria - a favorire lo sviluppo del mercato e ad innalzare il livello occupazionale del settore.

Non sto raccontandovi frottole: quello che ho scritto è frutto della ricerca appassionata di Beppe Lopez, un giornalista “libero” (e scomodo) che ha messo tutto questo sulla carta (nomi di giornali finanziati compresi) provocando con il libro che ne è venuto fuori, dal titolo “La casta dei giornali. Così l’editoria italiana si fa sovvenzionare dalla casta dei politici” un terremoto, subito messo a tacere però, perché, appunto come cantava Milly, ci sono cose che si fanno, ma non si dicono.

A me qui non interessa discettare sui requisiti di accesso ai contributi statali: al di là di quanto stabilisce la legge, io contesto il punto di partenza.
Perché lo Stato può agevolare l’acquisto della prima casa, ma non condizionare il pensiero. In nessun modo, né diretto né indiretto, né con l’imposizione, né con l’assistenzialismo. Altrimenti la libertà diventa regime.

Asservirsi al potere significa diventarne schiavi. Accettare anche un solo centesimo di finanziamento significa mettersi al servizio di chi finanzia.

Tranquilli, non sono un’estremista del giornalismo nazionale: ben vengano i contributi, ma a determinate condizioni: che siano a tempo determinato e ridotto, destinati solo ai piccoli imprenditori e per il lancio di nuove iniziative.
Perché l’incentivazione del merito non si trasformi di fatto in una sovvenzione a tempo indeterminato, con conseguenze disastrose per i cittadini, che hanno diritto a un’informazione di qualità e non condizionata.

Questa non è utopia. Credo sia arrivato il momento di squarciare il velo d’omertà che copre col silenzio gli opportunismi di pochi e i compromessi di anni.

Ma c’è un altro aspetto della schiavitù di stampa che voglio sottolineare, che riguarda indirettamente i giornali e direttamente noi giornalisti: un aspetto legato ai temi di questa testata, quelli universitari, e a due leggi, perniciose entrambe, non nello spirito che le ha animate, ma nel modo in cui sono state entrambe applicate, la legge sull’autonomia (come più volte ho scritto) e la legge che ha istituito le Scuole di giornalismo nelle Università.

Fornire alle Università italiane, dove l’unico ordine costituito è quello dei baroni, dove si decide non secondo norme, ma secondo clientele, dove una delle poche leggi che funziona è quella dell’ “io do una cosa a te, tu dai una cosa a me”, significa avallare scelte suicide che difficilmente possono essere comprese e giustificate dal resto del mondo che sta fuori.

Dare ai rettori, ai presidi e ai Consigli di Amministrazione la libertà di scegliere, senza selezioni trasparenti e mediante la tecnica della chiamata diretta, a quali esperti rivolgersi per i propri corsi “professionalizzanti”, per i propri master di primo e secondo livello dove girano per le retribuzioni migliaia e migliaia di euro (ma non sono notoriamente poveri gli Atenei italiani? Da dove vengono tutti questi soldi?), e dove gli incarichi – all’insegna dell’era già tutto previsto – vengono formalizzati con il rito, per la verità alquanto ridicolo, dell’uscita dall’aula degli interessati al momento della nomina, significa di fatto avallare la politica dell’opacità, corrosiva dell’immagine dell’Istituzione che si sta rappresentando.
Non solo. Ma – e qui ritorno al tema di questo scomodissimo editoriale – significa anche creare le condizioni per asservire al potere, con l’arma sottile ma efficace della gratitudine, chi invece in un Paese “political correct” ha il dovere deontologico, oltre che il diritto democratico, di essere libero; significa, nella peggiore delle ipotesi, rischiare di vedere Atenei addomesticare l’informazione locale con l’arma impropria di un contratto di collaborazione.

Intendiamoci, parlo di teoria, di rischi, di terreni favorevoli, non di certezze.
Dunque anche le ipotesi più nefaste per potersi realizzare devono prima fare i conti con barriere d’integrità morale e di lealtà professionale generalmente invalicabili.

Ciò però nulla toglie al mio discorso, e anzi lo rafforza.
Perciò, fatte salve le scelte fatte finora dagli Atenei (che non conosco e che dunque non posso giudicare) e fatta salva, naturalmente, la limpidezza personale e professionale dei tanti colleghi che hanno accettato incarichi all’interno delle Scuole di giornalismo delle diverse Università italiane, io condanno senza appello la dicotomia tra norma e sistema.

Se le leggi non sono adatte al sistema, o si cambiano le leggi o si cambia il sistema. Se il sistema nelle Università italiane è corrotto (cioè, preso atto dell’attuale situazione), è la legge che deve cambiare.

Ergo, le Scuole di giornalismo devono uscire dalle Università. Devono affrancarsi dal giogo accademico (di questo tipo di Accademia che abbiamo oggi in Italia) e passare in carico all’Ordine nazionale e da esso, attraverso gli Ordini regionali, essere gestite autonomamente.

E’ tempo che i giornalisti che insegnano a fare i giornalisti (scelti però in maniera trasparente attraverso sistemi di selezione inattaccabili) vengano “liberati” mediante rapporti di collaborazione che non prevedano “datori di lavoro” impropri, vengano stipendiati dall’interno e rispondano solo alla legge italiana, ai Regolamenti di settore, all’Ordine professionale e alla propria coscienza.

Per assicurare a un Paese democratico la libertà di stampa occorrono interventi coraggiosi. E occorre gente che la voglia davvero.

Nel gennaio dell’83, un mese dopo l'uscita del primo numero del mensile “I Siciliani”, arrivò a Catania, a Pippo Fava, l’offerta del cavaliere del lavoro Mario Rendo: “Vi compro la rotativa”. Offerta rifiutata.
Nell’ottobre dell’83, nove mesi e nove numeri dopo, il ministro Salvo Andò gli offrì la gestione di una nuova emittente. Offerta rifiutata.
Poi arrivò la proposta del cavaliere del lavoro Gaetano Graci: 200 milioni per entrare nella proprietà del giornale. Offerta rifiutata.
Pippo Fava morì di mafia il 5 gennaio dell’84, a un anno esatto dalla prima offerta.

E’ difficile essere liberi. Si rischia, se va bene di rimanere isolati, se va male di venire ammazzati.

Ma a me sta bene così.



 


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